Con cardiologia riabilitativa -30% mortalità e nuovi ricoveri
Con cardiologia riabilitativa -30% mortalità e nuovi ricoveri

Ma poco conosciuta e praticata, solo 30% la fa 

I pazienti che dopo un infarto, un intervento cardio-chirurgico o un episodio di scompenso cardiaco vengono avviati a un percorso di cardiologia riabilitativa presentano una riduzione di mortalità cardiovascolare e riospedalizzazione del 30%. Sono risultati paragonabili solo a quelli dei trattamenti farmacologici più efficaci e potenti, come le statine e l'aspirina. Eppure, il ruolo della chirurgia riabilitativa è poco conosciuto. Dai pazienti, ma anche dagli stessi medici.

Questo spiega perché il cosiddetto 'referral rate' cioè il tasso di invio in cardiologia riabilitativa dopo un evento coronarico acuto o un intervento cardio-chirurgico sia molto basso: appena il 30% di quanti ne avrebbero bisogno e diritto. Se ne parla al 14.esimo Congresso nazionale della Italian Association for Cardiovascular Prevention, Rehabilitation and Epidemiology (Gicr-Iacpr) a Genova.

Paradossalmente l’Italia, che ha una prestigiosa tradizione di cardiologia riabilitativa, dovrebbe ritenersi abbastanza soddisfatta confrontando i suoi numeri ad esempio con gli Stati Uniti, che ha un referral rate del 20%; tuttavia, il riferimento dei pazienti a un programma di cardiologia riabilitativa in questo Paese è considerato un indicatore di 'qualità di cura' negli ospedali per acuti, mentre il mancato invio del paziente viene calcolato come un punto di demerito (con ricadute sul rimborso della struttura da parte del sistema Medicare). Questo non accade nel nostro Paese, segnala la Gicr-Iacpr.

Negli Usa si stima che se si riuscisse a portare questa percentuale al 70% si potrebbero risparmiare qualcosa come 25 mila decessi l’anno e 180 mila riospedalizzazioni tra questi pazienti. "Sulla scorta degli esempi indicati - commenta Roberto Pedretti, presidente di Gicr-Iacpr e direttore del Dipartimento di cardiologia riabilitativa, Istituti clinici scientifici Maugeri Irccs, Pavia - il non avviare un paziente cardiopatico dopo un evento acuto ad un programma di Cpr equivale a un 'sottotrattamento', esporlo cioè ad un rischio di morte e riospedalizzazione aumentato sino al 30-40%".

"In Italia - afferma Pedretti - un elemento di criticità è rappresentato dal fatto che a livello ministeriale gli interventi riabilitativi, siano essi cardiologici, motori o neurologici, rientrano tutti nel 'calderone' del cosiddetto 'codice 56'. Per il decisore pubblico la cardiologia riabilitativa di per sé non esiste, ma si parla genericamente di 'riabilitazione' (codice 56). Si ritiene che la prevenzione secondaria sia qualcosa che qualunque medico sia in grado di fare. Questo porta a perdere in specificità ed è un rischio. Non accettiamo di essere inseriti nel grande capitolo della riabilitazione; preferiamo parlare di cardiologia riabilitativa come parte integrante della cardiologia".

 


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